La storia del calcio: Sivori, El pibe de oro degli anni sessanta

Giocavo con i calzettoni abbassati per far vedere che non avevo paura”. La paura non era una sensazione che poteva appartenergli. Può provare paura chi gioca a calcio per vivere ma non chi vive per giocarci.

Omar Sivori, l'ex Juve al quale si è ispirato il "clone"
Omar Sivori, l’ex Juve al quale si è ispirato il “clone”

Lo sapeva bene tanto da insegnarlo al mondo intero Enrique Omar Sivori (1953-2005), il giocatore che con l’estro del campione ha saputo importare in Italia la genialità e lo spettacolo del calcio argentino. “C’era il desiderio di fare qualcosa di speciale, di giocare con gli avversari” e di divertire il pubblico quasi come se quel rettangolo verde diventasse un palcoscenico ogniqualvolta mettesse piede in campo El Cabezon. Questo il suo soprannome per via della folta e riccia capigliatura scura che lo distingueva. È il 1957 quando l’Italia lo accoglie. Sono serviti dieci milioni di pesetas (circa 180 milioni delle vecchie lire), finiti nelle casse del River Plate, per portare a Torino questo mix di pungente provocazione e sublime classe che farà innamorare centinaia di appassionati, juventini e non, sempre pronto a dare spettacolo sul prato verde dove miete “vittime“. Le sue vittime, i suoi avversari, il bersaglio preferito di ogni sua fantasia. Astuto e concreto, gentile e letale allo stesso tempo, ma anche fantasia mista all’istinto da numero 10. Sivori è inimitabile nel suo intendere il calcio. Ed è inimitabile la facilità con cui di partita in partita riesce a spiazzare l’avversario, quasi deridendolo, ma sempre col rispetto del campione. La Juventus è a Genova. Anche contro la Sampdoria il “maestro” sferra il colpo: in un’azione travolgente Sivori è solo, dopo aver scartato anche il portiere, sulla linea della porta avversaria, ma si ferma. Attende l’arrivo del difensore che tenta in extremis di salvare. Ma l’argentino quasi ironicamente sposta il pallone indietro a vuoto e appoggia in rete. Questo è solo uno dei tanti aneddoti che sottolineano il sarcasmo delle sue giocate. «Stavamo vincendo 3-0 con il Padova e la partita stava già finendo, quando l’arbitro ci concesse un rigore che i padovani contestarono vivacemente, nonostante non avesse influenza sul risultato finale. Vedendo la disperazione di Pin, il portiere, mi avvicinai e gli dissi: “Non preoccuparti, tanto lo tiro sulla sinistra”. Andai sul dischetto ed, ovviamente, tirai sulla destra, segnando. Pin si arrabbiò come un matto, inseguendomi ed insultandomi. Non me la perdonò mai. Lo incontrai nuovamente, un paio di anni dopo su una spiaggia, e lui ancora si arrabbiò. Inutilmente tentai di spiegargli che io avevo inteso la mia sinistra e non la sua. Non ci cascò e continuò ad odiarmi». Entra in campo sempre col sorriso, un sorriso un po’ diabolico e un po’ gentile. Provocatore, non disdegna le risse sul campo, Omar Sivori è difficile da contenere e le sue tante squalifiche parlano chiaro. E questo personaggio dal malizioso talento e dal carattere duro, fa del tunnel all’avversario l’arma individuale principale per dribblare chiunque trovi davanti con la facilità delle sue iniziative. Sivori è sinistro e a chi gli fa notare come questo sia un suo “limite” risponde coi fatti e non solo, perché a lui il destro non serve. È il giorno della presentazione alla Juventus e l’avvocato Agnelli nel vederlo palleggiare davanti a lui riconosce la sua indiscutibile bravura ma gli fa notare che non sa usare il piede destro. Al Cabezon bastano 3 o 4 giri di campo palleggiando col sinistro senza mai far cadere il pallone per poter permettersi di rispondere all’ Avvocato: «Secondo lei, cosa ci dovrei fare con il destro?». Anni d’oro per il campione argentino quelli in maglia bianconera ma destinati a terminare prima di quanto lui o gli stessi juventini avessero voluto. Il palmares negli anni della sua esperienza alla Juventus (1957-1965) conta 167 reti in 253 partite e poi ancora 3 scudetti, 2 Coppe italia e il pallone d’oro nel 1961. Poi la rottura col club, o meglio col tecnico paraguaiano, Heriberto Herrera, che proprio nel 1964 arriva sulla panchina bianconera. Due modi diversi di intendere il calcio, due caratteri incompatibili e l’impossibilità della convivenza di queste due menti in uno stesso ambiente portano alla fine della carriera in bianconero. «Purtroppo, si arrivò al distacco definitivo. Non riuscivamo ad intenderci ed a concepire il calcio nella stessa maniera. Me ne andai io, nonostante la stima della società, perché non mi sembrava giusto porre il dilemma “o Sivori o Herrera”. L’allenatore doveva restare ed io andare, non potevamo restare insieme». Dopo la Juventus, sarebbe volentieri tornato in Argentina ma rimane in Italia ed approda al Napoli (1965-1968). I partenopei ringraziano per questo Flavio Emoli, ex capitano juventino arrivato anche lui al Napoli, che lo ha convinto nell’intraprendere questa esperienza in azzurro. Inutile dire che, come per il popolo juventino, anche a Napoli, Omar entra nei cuori dei partenopei. Ed anche qui il suo carattere incontenibile non tarda a mostrarsi. E soprattutto nello scontro con la Juventus, dove Sivori non riesce a rimanere indifferente a Favalli, l’uomo dedicato alla marcatura di Omar e che oggettivamente fa di tutto per innervosirlo. Ci riesce e El Cabezon reagisce. L’arbitro Pieroni decreta l’espulsione per lui ma intanto scoppia la rissa, terminata poi con le espulsioni dell’allenatore Chiappella, del napoletano Panzanato e dello juventino Salvadore. Questo episodio gli costerà sei giornate di squalifica. Un fuoriclasse difficile da gestire ma inimitabile, di un’intelligenza quasi perfida che si è rivelata l’ingrediente segreto del campione, una bandiera del calcio argentino degli anni sessanta, che ha “parlato” di calcio in un modo del tutto originale e che entra di diritto nelle memorie e nella storia del calcio.

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