Spostate il Vesuvio, il Napoli europeo non sarà il Barcellona

L’eliminazione del Napoli dalla Champions League non ha portato solo rassegnazione e complimenti di circostanza. Lo Stamford Bridge, infatti, ha messo a nudo i limiti e le lacune della squadra partenopea, da diverso tempo volta ad affermarsi come una realtà internazionale.

Fonte immagine: Danilo Rossetti
Fonte immagine: Danilo Rossetti
Quella del Napoli di De Laurentiis è sicuramente una bella storia: una società che nell’arco di 7 anni riesce a risalire dalla Serie C alla A, per poi arrivare anche in Europa, mantenendo contemporaneamente i bilanci in regola, è da lodare, soprattutto per una filosofia ed un’etica che sono sempre coincise con i dettami di federazioni ed associazioni varie. Tuttavia, la formula della vittoria applicata dagli azzurri sembra mancare di un passaggio fondamentale; l’idea di una squadra giovane e preparata, a monte di un progetto che ha cominciato ad assumere negli ultimi tempi aspetti utopistici, non è sostenuta dalla manforte antipatica e necessaria della concretezza, quel pizzico di incisività che nel calcio può tradursi semplicemente nell’ottenimento di innesti già pronti, in grado di aumentare automaticamente la qualità di un gruppo e di rivelarsi così funzionali ab imis.
In questa stagione, il Napoli ha onorato una bellissima Champions League, che probabilmente, però, non ha conosciuto il finale che più meritava: dopo aver tenuto testa a diverse (e sole) formazioni di rango mondiale ed aver espresso una concezione di gioco divenuta presto di dominio pubblico, la banda di Mazzarri è inciampata prima del dovuto, fermandosi di fronte ad un ostacolo che non era ancora insormontabile per le sue possibilità. E così, la favola si è conclusa all’improvviso, senza che il Napoli avesse l’opportunità di recarsi al Camp Nou od al Bernabeu, magari con la consapevolezza che sarebbe stata la sua ultima tappa, e di soccombervi anche brutalmente, ma col sorriso sulle labbra.
In questi anni De Laurentiis è stato protagonista di una gestione pulita e lineare, avendo ragione anche quando gli davano torto. Il presidente, però, non ha aggiunto al proprio puzzle alcuni tasselli preziosi, pochi ma importanti, la cui assenza si è fatta alla fine sentire proprio nella prova del nove contro il Chelsea.
Per competere con delle big internazionali, in un calcio in cui le squadre più blasonate fanno carte false per accalappiare determinati obiettivi di mercato, è necessario adeguarsi parzialmente all’andazzo e prendere qualche giocatore già fatto. Il Napoli ne aveva bisogno soprattutto in difesa, reparto finito sul patibolo da diversi mesi a questa parte, ma è pur vero che trovare elementi validi per la retroguardia, al giorno d’oggi, è sempre più difficoltoso: gli stranieri sono sempre una scommessa, un’incognita, e l’Italia (lo possiamo vedere anche con la Nazionale) offre ben poco in tal senso.
Il problema del Napoli è quello di essere una squadra italiana. Alle nostre società, infatti, non importa nulla dello sviluppo del calcio nazionale, tanto che sono ossessionate dai risultati immediati. Di conseguenza, il movimento calcistico italiano non cresce.
Dove sono i Cannavaro, i Nesta, i Zambrotta di una volta? Chi sarà il Pirlo di domani? De Laurentiis ha dichiarato a più riprese di prendere come modello di riferimento il Barcellona, ma alla fine, è facile constatare come non sia effettivamente così, che la cultura calcistica catalana, rispetto a quella napoletana, e non solo, sia molto più evoluta e viva: l’organizzazione dei blaugrana ha quasi del mafioso nei confronti dei giovani, costretti ad una mentalità belligerante dal principio. Un giocatore come Vargas, ad esempio, non crescerà mai da noi. Un giocatore come Vargas deve prima essere protagonista all’estero per un paio di anni. Il punto è che, se glielo si lascia fare, poi arriva qualcun altro e se lo soffia; come potrebbe essere altrimenti, quando le maratone di mercato del 2000 impongono alle grandi società investimenti repentini e quindi anche rischiosi, spesso per mezzo dei succitati imbrogli, finendo anche col rimediare dei bei simpatici flop? L’evoluzione finalizzata a portare l’Europa a rassomigliare al Barcellona dovrebbe passare attraverso un radicale cambio di mentalità, imprescindibile, tuttavia, da una rivisitazione dei fondamenti del sistema calcio, che negli anni ha finito col tradire se stesso ed imbolsire lo spirito della nostra disciplina preferita.
All’ombra del Vesuvio è nascosta una grande verità: è impensabile costruire un Barcellona in Italia. Se volete coniugare lo spettacolo e l’intelligenza del pallone, se volete sopravanzare l’anima del gioco, e se volete provarci a Napoli, spostate il Vesuvio.

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