Storie Mondiali-“I campionati del mondo ai tempi di Sensible Soccer”, Italia-Eire USA ’94

Fonte immagine: Wikipedia
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Ci sono, a volte, storie d’amore che quando finiscono fanno piangere. Ma se pensi a quel che eri prima e a quel che ti ha dato il durante, non puoi che ricordarle con affetto. Così ci si ricorda, ovviamente e con sempre un po’ di tristezza, le lacrime di Baggio e di Baresi. Il volto smarrito di Berti e quello invecchiato all’improvviso di Donadoni. Si pensa a Dino Baggio, uno che probabilmente quando aveva 10 anni e giocava a Tombolo, si sentiva dire che con quei piedoni avrebbe fatto meglio a dedicarsi ad altro e invece si è ritrovato ai Mondiali (e a percorrere una carriera di tutto rispetto) da protagonista e goleador e lo si vede accasciato sul prato di Pasadena, senza più un briciolo di forze per tirarsi su. Si pensa ad Albertini, che a 23 anni ha giocato già la partita di una vita e se l’è meritato di arrivarci; perché sì, gioca da veterano, ma ha 23 anni, ragazzi. E Massaro, che di gol ne ha fatti e di trofei ne ha vinti eppure s’è fatto ipnotizzare da Taffarel e paralizzare dall’acido lattico che ti inchioda i polpacci come se avessi un pitbull attaccato alle caviglie e adesso piange anche lui, lacrime amare dopo quelle di gioia di Atene.
Però: come ci siamo arrivati? Come dei single sfigati, in giro per bar fino a tarda notte, a bere lattine di pessima birra e trascinandosi lungo i lampioni un sabato dopo l’altro che poi, all’improvviso incontrano l’amore della propria vita su un autobus notturno: un lampo; gambe lunghe come il tiro di Baggio che passa tra le gambe nigeriane e un attimo di respiro sospeso, come quello in attesa di veder entrare il pallone. Ma prima, che poveracci che eravamo!
Il 18 giugno, alle quattro del pomeriggio, ora di New York, pascolavamo per il prato del Giants Stadium chiedendoci quasi: che ci faccio qui? Quell’insolita partita all’ora di pranzo. Ero a casa, a tavola e probabilmente mi ero svegliato da poco. Avevo dodici anni e la scuola era finita. Faceva strano anche a me: una partita a quell’ora, quando mai l’avevo vista? Altri tempi, un’altra epoca, senza anticipo del sabato alle 18 e della domenica alle 12:30. Così, ricordo, non mi parve nemmeno strano che all’undicesimo fossimo sotto per 1 a 0 contro l’Eire.
Che poi: quelli lì li avevamo già incontrati quattro anni prima, me lo ricordavo bene: il tap-in di Totò su tiro di Donadoni. Correvano e picchiavano, ma mi stavano simpatici (e ancora non avevo conosciuto la birra irlandese) perché erano sempre buffi e scoordinati: piccoletti che sembravano sovrappeso e perticoni che parevano marionette.
Nel ’94 mi sembravano meno simpatici, forse perché passarono subito in vantaggio e perché ne capivo un po’ più di calcio: così non potevano piacermi molto quei lanci lunghi e quel noioso fraseggio nella loro metà campo. A dodici anni non è che sai vedere le cose in maniera equilibrata e oggettiva, del tipo “ognuno ha il suo stile di gioco”: erano gli anni in cui il calcio italiano dava spettacolo, vinceva ovunque e tutti ringraziavano Sacchi che anche da CT della nazionale continuava a ripetere: umiltà, intensità, pressing e spettacolo. Quel pomeriggio mi sembrava di vedere solo la prima, ma non per questo potevo accettare un gioco così pragmatico come quello irlandese. Era il tipico gioco britannico di quegli anni: terzinacci che crossano cento volte a partita, piccoletti che corrono sulle fasce, un mastino – Roy Keane – in mezzo al campo e una torre là davanti a fare a sportellate coi difensori e a raccogliere dalla spazzatura palle sparacchiate lontano dai suoi. Quel giorno là davanti però c’era Coyne, che non era esattamente una torre; piuttosto un furetto, alto un metro e ottanta e incaricato di dare il tormento a Costacurta e Baresi. Minuto 11′: lancio lungo senza troppe pretese; ma molto lungo: due metri dentro l’area Billy salta e respinge corto, Baresi manca lo stop e arriva Ray Houghton: controllo in corsa ad accentrarsi e tiro al volo, di quelli che escono così male da essere imprendibili. Parabola a scavalcare, Pagliuca al limite dell’area piccola, spaesato come uno scolaretto che ha perso lo scuolabus fa un saltino che almeno dimostra il suo stato di coscienza, ma non ci arriva: palla sotto la traversa e 0 a 1. Si capisce che non sarà una gran giornata per l’Italia. Il gol è oggettivamente brutto, ma Houghton è un signor giocatore, non uno passato di lì per caso.
Il buon Ray è un britannico a tutto tondo: nato scozzese, vicino a Glasgow, ma nazionale irlandese in virtù del babbo, giocherà praticamente tutta la sua carriera professionistica in Inghilterra. Gioca prevalentemente ala destra, a volte in posizione più interna. Gioca per cinque stagioni nel Liverpool, e regala alla Kop gli ultimi scudetti, insieme al suo connazionale Aldrige, Beardsley e a Jhon Barnes. Poi passa all’Aston Villa, per qualche anno ancora ad alto livello. Intanto ha debuttato in nazionale e ha partecipato agli Europei del 1988 in Germania Ovest. Contro l’Inghilterra, affrontata per la prima volta nelle fasi finali di una competizione, decide l’incontro con un pallonetto di testa. Uomo dai gol delle grandi occasioni, in maglia verde, questo Houghton. Sarà anche a Italia ’90 e patirà l’eliminazione ai quarti per mano dell’Italia. In lui e in tanti suoi compagni, quel pomeriggio americano, c’è tanta voglia di vendetta sportiva.
Non ricordo un’altra partita finita così presto. Praticamente, dopo il gol di Houghton, non succede nient’altro di rilevante. D’accordo, le cronache raccontano di qualche occasione per gli azzurri, di un Baggio che in qualche modo ci prova, di una traversa irlandese nel finale. Ma la sensazione vera, per i successivi 79 minuti, è che non ci sia più una partita: l’Irlanda non ha nessuna voglia di giocare a calcio seriamente e l’Italia sembra troppo stanca per imporglielo. Ray corre da una parte, Stauton dall’altra. Sheridan folleggia in mezzo al campo e là dietro Phelan e Babb colpiscono ogni cosa passi dalle loro parti. Babb io lo conoscevo bene. Non che ci fosse la possibilità di guardare il campionato inglese alla TV. E anche risultati e classifiche erano roba per appassionati; c’era il papà di un mio amico che seguiva il calcio inglese (in realtà era fan di tutto lo sport britannico, ricordo che mi parlò così tanto di Linford Christie da far appassionare anche me al punto che quando alle Olimpiadi del ’96 lo squalificarono in finale, me la presi con il vincitore Bailey, che però poi diventò il mio velocista preferito, fino a quando non scoprii Ato Boldon; ma questa è decisamente tutta un’altra storia). Però io Phil Babb lo conoscevo bene perché c’era Sensible Soccer (o ancora meglio il suo successore: Sensible World of Soccer, che univa manageriale e arcade). Era un giocatore che compravo sempre (nel ’94 era al Coventry, e proprio nell’anno dopo i mondiali passò al Liverpool) perché era un difensore centrale, ma si adattava a giocare terzino sinistro e quindi, come tutti i terzini, era velocissimo. In quel giochino, la velocità era tutto o quasi. In pratica Babb lo conoscevo meglio io dei giornalisti sportivi. Anche Ray Houghton lo conoscevo bene, ovviamente. Contrassegnato dal ruolo RW, quando usavo il Liverpool (cioè sempre, se mi dedicavo al campionato inglese) lo facevo giocare titolare, anche se non aveva un gran tiro. Forse dopo USA ’94 gli migliorarono la caratteristica. Lui da una parte e Barnes dall’altra. Però, a dire il vero, a quell’epoca di lui m’ero già un po’ scordato, perché se n’era andato ai Villains e al suo posto sulla fascia destra di Anfield facevo correre il biondo Steve McManaman. Però quel Tommy Coyne, chi lo conosceva? E poi: non avrebbe dovuto giocare Aldrige? E Cascarino? Evidentemente Jackie Charlton ci aveva visto bene preferendo il piccolo attaccante sconosciuto a livello internazionale; se l’Inghilterra era quasi fuori dai radar del calcio europeo, immaginate la Scozia, quindi di questo Coyne nessuno ne aveva mai sentito parlare. Però il piccoletto se la cavava, giocava e segnava nel Celtic e continuò a giocare e segnare per parecchie stagioni ancora.
La partita finì con quell’arcobaleno sopra la testa di Pagliuca, che mi suonò come un rimprovero per essermi dimenticato di Ray solo perché aveva lasciato il Liverpool. In realtà, in quel caldissimo pomeriggio newyorchese l’Italia ci prova anche a reagire: un paio di scambi Baggio-Signori portano al tiro prima uno e poi l’altro, ma non si vede niente che avesse a che fare con la brillantezza del loro tip tap sul palcoscenico in una nota pubblicità che impazzava quell’estate. Quando poi Signori si ricorda di avere uno scatto bruciante sui primi tre metri e si incunea in area, ci pensa Pat Bonner a metterci i pugni: la respinta non è un granché, a dire il vero, e sembra un po’ quella che costò l’eliminazione alla sua nazionale nel ’90, ma stavolta non c’è Schillaci a raccogliere la respinta e la difesa libera.
Ricordo che provai diverse volte a ripetere quel gol nefasto giocando a Sensible Soccer. Ma non c’era niente da fare: o veniva fuori un tiro mollo che il portiere bloccava con un saltino o, se provavi a fare il pallonetto tirando indietro la leva del joystick, sparavi altissimo sopra la traversa.
In compenso, il rigore sbagliato da Baggio in finale mi veniva benissimo.
Così andò quel pomeriggio caldo di cui pochi ricordano. Houghton eroe e azzurri riempiti di sberleffi. Poi sappiamo tutti come andò avanti. E recriminiamo sulle precarie condizioni fisiche di tanti giocatori schierati in finale, imprechiamo contro la maledizione dei rigori, ci commuoviamo per il pianto di Baresi, Oh capitano, mio capitano. Come nelle storie d’amore. Però, passata la delusione, uno guarda indietro e ripensa a dov’era prima che tutto quel casino cominciasse: le braccia alzate di Pagliuca, lo smarrimento della difesa, sudore, fatica inutile, facce stralunate e la sensazione che saremmo tornati a casa in fretta. Nessuno, in quel momento avrebbe potuto immaginare ciò che sarebbe accaduto nel mese successivo. Nessuno, tranne chi giocava a Sensible Soccer abbastanza tempo da sapere che la velocità era quasi tutto, ma quando facevi arrivare la palla rasoterra a Robi Baggio, potevi piroettare su te stesso dieci volte senza che il pallone si staccasse dai piedi e, trovato l’angolo giusto, magia: non c’era portiere che arrivasse a parare il suo diagonale a effetto. Altro che i pallonetti di Ray.
 
di Simone Sciutteri

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