Storie Mondiali-“Cose turche nell’estremo oriente”, Senegal-Turchia 0-1 Corea/Giappone 2002

Il 18 giugno del 2002 ero a casa di un amico, insieme a altri sei o sette, tutti scappati dal lavoro – chi ufficialmente, chi meno – a qualche bottiglia di birra vuota e a una quantità incredibile di imprecazioni, quando un paio di maglie azzurre restarono impalate a guardare un buffo coreano che saltava al limite dell’area piccola. La sensazione fu che così doveva andare, per molti e disparati motivi, ma anche e soprattutto perché quella squadra non fece molto per meritare un epilogo diverso. Con tutte le attenuanti del caso. Però quelli erano anni in cui il calcio italiano era ancora all’avanguardia rispetto al resto del mondo: in fatto di attenzione alle pettinature e al look, quella squadra non avrebbe nulla da imparare dal CR7 di oggi. Qualche aggiustata in meno ai ciuffi e un po’ di concretezza in più avrebbero aiutato una squadra che di talento ne aveva da vendere.

Fonte immagine: 撮影者自身による投稿-Waka77
Fonte immagine: 撮影者自身による投稿-Waka77
Però non vorrei parlare di questo. Parlare di Italia-Corea significherebbe parlare anche di Byron Moreno, degli striscioni incredibili appesi alle tribune in mezzo a quel mare rosso di tifosi che era comunque impressionante. Bisognerebbe quindi parlare di Portogallo-Corea e di Corea-Spagna. Anche quelle partite lasciarono un bel po’ di strascichi. Ma pure in questo caso non ci si potrebbe accontentare di dire: doveva finire così; bisognerebbe andare a chiedere a Joao Pinto che gli saltò in testa a metà del primo tempo di una partita che al Portogallo sarebbe bastato pareggiare per fare quell’entrata da karateka in mezzo al campo, che gli costò il rosso diretto. E bisognerebbe anche dire che ai calci di rigore, per quanto la situazione ambientale fosse ostile, nessuno obbligò Joaquin a sbagliare. D’accordo: non avrebbero dovuto nemmeno arrivarci a quel punto, con tutta probabilità. Due gol annullati senza alcun motivo fecero gridare allo scandalo. Ci prendevano in giro: poveracci gli italiani, i soliti vittimisti; vi facciamo vedere noi come si sistemano questi musi gialli. Finì con Marca che titolava: gli italiani avevano ragione! L’italiano medio – e, ammetto, pure io – pensò: ben vi sta! Nella più ovvia delle logiche tantopeggiste che vanno sempre di moda: mal comune, mezzo gaudio.

Quello del 2002 viene sempre citato come il Mondiale più pilotato della storia. Però anche quello del 1962, con la famosa “battaglia di Santiago”, dalla quale uscimmo malmenati e praticamente eliminati, non fu da meno. Di quel Mondiale – e di quella partita – si è scritto tantissimo ed anche in questo caso, l’Italia ci mise del suo: pressione ambientale (tutto, si dice, nato da un incidente diplomatico a causa di un articolo de Il resto del Carlino in cui si parlava male di Santiago e di tutto il Cile) e sviste arbitrali furono così grandi da far sembrare normale la partita di Daejeon, ma il pressapochismo e la confusione tecniche con cui fu affrontata quella spedizione furono ai limiti del ridicolo.

Però questa vuol essere un’altra storia, una storia bella. Cose turche nell’estremo oriente. Dopo 10′ secondi del primo tempo supplementare Henri Camara è già dentro l’area turca, grazie a una travolgente azione personale; l’uscita del portiere lo frena e l’attaccante senegalese finisce per trascinarsi il pallone fuori. Sarebbe stato incredibile: sei giorni prima era stato suo l’ultimo pallone della partita, il golden gol agli ottavi contro la Svezia, e di nuovo stava per mettere la firma sul proseguimento della favola del Senegal, che prima degli ottavi aveva battuto anche la Francia, all’esordio (anche quella sera ero in compagnia di amici, ma al ristorante, e, tra una birra e un pezzo di salsiccia, ridemmo senza minimamente prendere in considerazione che anche l’Italia avrebbe potuto far poco meglio degli antipatici Transalpini) e s’era qualificata mettendosi alle spalle nel girone anche l’Uruguay di Recoba e Forlan.

Il portiere che chiuse l’incursione di Camara era il signor Rüştü Reçber, che all’epoca difendeva i pali del Fenerbache. 1,86 m, una lunga coda nero corvina, una striscia nera sotto gli occhi per combattere il riverbero dei riflettori e l’espressione da pirata ottomano: chiunque nei panni dell’ala senegalese almeno per un attimo si sarebbe spaventato. Rüştü otto mani sembra averle sul serio: è un portiere dotato di riflessi eccezionali e una personalità che lo fa sembrare un Ibrahimovic della porta; in quel momento è uno dei migliori portieri del mondo e ai Mondiali sembra secondo solo a Oliver Khan; altrettanta personalità anche se stile completamente diverso. Poco dopo il buon Reçber uscirà in presa alta, con le braccia protese in avanti e un balzo che sembra un teatrante appeso a un cavo d’acciaio e con la sua manona destra innescherà il contropiede.

Gran bella squadra, quella Turchia. Certo, capire come abbia fatto – senza offesa – ad arrivare fino a quel punto una squadra che schierava Hakan Sukur come centravanti, francamente, non è facile. Eppure il lungagnone turco ha alle spalle una carriera di tutto rispetto e la stima di tanti che lo hanno allenato. Quasi un feticcio per Terim, voluto fortemente a Milano, sponda nerazzurra, da Marcello Lippi (anche se una campagna acquisti che comprendeva pure i bolliti Jugovic e Paulo Sousa e il siluramento di Diego Pablo Simeone, qualche dubbio sulla buona fede dell’allenatore lo solleva…). Al di là del suo feeling con la porta troppo scarso per un attaccante, il buon Sukur ha però dalla sua il gran fisico e la generosità: il lavoro che fa per la squadra, difendendo palle sporche, pressando e aprendo gli spazi agli inserimenti dei centrocampisti, è fondamentale per il gioco di questa squadra. Alle sue spalle infatti, nella squadra disegnata da Şenol Güneş, giostrano Emre Belozoglu, Hasan Sas, Umit Davala, Yldiray Basturk: tutta gente con corsa e piedi buoni. Questa la spiegazione tecnica dell’inamovibilità di Hakan Sukur, che di questa nazionale è anche il capitano. Ma c’era molto di più là in mezzo a quelle maglie rosse, all’ombra della mezzaluna. C’è chi dice che siano tutte storie; ma – dicono gli altri – il fatto che il centravanti dopo il ritiro si sia candidato con l’AKP, il partito islamico conservatore, non fa che confermare il suo ruolo di capo clan all’interno di quello spogliatoio. O almeno di una parte: quella dei fedeli, che si contrappone alla parte non musulmana, guidata da Basturk, che infatti a Sukur non sta simpatico manco un po’, e però dei piedi buoni del folletto col numero 10 proprio non si può fare a meno lì in mezzo. Una parte della squadra si raccoglie in preghiera, l’altra forse si sparpaglia, o si raccoglie attorno a un biliardo fumando sigarette. A Güneş, in teoria, dovrebbe interessare poco, ma pare che abbia una preferenza per Hakan, sempre in campo nonostante lo zero nella casella gol segnati. Şenol è un vincente poco amato. Di Trazbon (in italiano Trebisonda, tanto per dire), passa per un tipo tranquillo, che perdona Rivaldo dopo la sceneggiata – finse di aver preso una pallonata in faccia provocando l’espulsione di Hakan Unsal, che quel pallone gliel’aveva spedito sulla caviglia. Non lo farà più, dice Güneş. Comunque Hakan è sempre in campo e quando c’è da tirare fuori qualcuno, si alza la lavagnetta con il numero 10. Quasi sempre. La sera del 22 giugno, lungo la linea del fallo laterale, si è illuminato invece proprio il numero 9. Eh sì, caro Hakan, stavolta tocca a te.

In campo, tra quelli che fanno paura, c’è anche Umit Davala, coi suoi capelli da moichano e il numero 22 sulla schiena, che ha segnato il gol della vittoria contro i padroni di casa del Giappone negli ottavi di finale. Pure Hasan Sas, il trascinatore della squadra fino a quel momento (tre assist e due gol), va sempre in giro per il prato con la faccia incazzata, sotto una pelata che in quegli anni si sarebbe detta “alla Ronaldo”, se non fosse che lo stesso Luis Nazario de Lima, si presentò al Mondiale nippocoreano con un triangolo di pelo riccio sulla fronte.

Minuto 67: esce Hakan Sukur, entra Ilhan Mansiz. A dire la verità, è un cambio già visto: nella partita del girone terminata 1-1 contro la Costarica. Però quella era, appunto, una partita; questa è La Partita: qui si fa la storia della nazionale di calcio della Turchia e si farà – o meno – per i prossimi 23 minuti, più recupero, più eventuali supplementari e calci di rigore, senza il suo leader, capitano, condottiero, guida spirituale. Ad ogni modo, Ilhan c’è abituato: 24′ al debutto contro il Brasile; 15′ contro la Costarica; 20′ contro la Cina, nella vittoria 3-0 che qualifica la squadra di Şenol agli ottavi; i minuti di recupero contro il Giappone. Fino a quel momento, non aveva ancora lasciato il segno. Era semplicemente l’uomo che Güneş usava per far rifiatare, a giro, gli uomini offensivi della sua squadra titolare.

Non è stata una gran partita, fino a quel punto. E anche l’ingresso di Mansiz non sembra avere particolari effetti. Le squadre si temono e hanno paura di perdere. Il Senegal sembra avvertire all’improvviso il peso della Storia: da squadra rivelazione a alfiere del calcio africano, la tensione aumenta notevolmente. E forse sono anche un po’ stanchi e svuotati i giocatori. Fadiga sembra meno ispirato. Diop un po’ spento. Camara meno sprintoso. Diouf si sbatte e crea qualche grattacapo alla difesa turca, che rischia un paio di volte su qualche palla persa a metà campo. Ma non ci sono vere occasioni per i senegalesi, se si esclude un gol annullato giustamente per fuorigioco nel primo tempo. La Turchia forse si è un po’ spaventata per l’inizio grintoso di Diouf e compagni e anche se si sono subito sgonfiati, fatica ad attaccare con cattiveria. L’occasione più grossa capita a Basturk: lancio per Sukur, sponda per Hasan Sas, pallonetto a scavalcare la difesa per l’accorrente numero dieci, che anticipa Sylva di testa; salva in scivolata quasi sulla linea il numero 2 Daf.

All’inizio del primo tempo supplementare, Güneş butta dentro anche Arif Erdem, centrocampista offensivo del Galatasaray, al posto di uno stanco Emre. Bruno Metsu invece si agita in panchina, con i suoi lunghi ricci biondi che sventolano e gli occhi azzurrissimi che corrono sulla superficie del prato, all’inseguimento dei suoi, del pallone, dello spazio giusto e dell’intuizione, ma non effettua cambi. D’altra parte, sembra davvero una di quelle partite destinate a finire così, a reti bianche. L’evento imprevisto si accanirà in seguito con lo sfortunato Metsu, che dopo aver girovagato per il mondo arabo (convertitosi all’Islam e preso il nome di Abdoul Karim, allenerà Emirati Arabi, Qatar e squadre di club di quei paesi; l’ultima fu l’Al-Wasl, subentrando all’esonerato Diego Armando Maradona), tornerà in patria per morire di malattia nell’ottobre del 2013.

Quella sera l’imprevisto fu certamente da meno e non venne sotto le sembianze di una malattia. Quella sera spezzò la trama già scritta di uno 0-0 e via, ai calci di rigore, proprio Ilhan Mansiz. Quello che non ti aspetti. Anche se Ilhan quell’anno è stato capocannoniere della Superlig turca. Gioca nel Besiktas e fa gol in tutti i modi. L’hanno pescato nel Samsunspor, che a sua volta l’aveva scovato nel Kuşadasıspor, squadra che militava in seconda serie. Aveva già provato, un paio di stagioni prima, a sfondare in patria, lui che è nato in Germania e ha fatto tutte le giovanili in terra tedesca, fino alle porte della prima squadra del Colonia. Ma con il Gençlerbirliği giocò solo un paio di partite e se ne tornò a casa, nel club turco di Monaco. Un cammino tortuoso, per arrivare fino lì, ai tempi supplementari di un quarto di finale, alle soglie di un traguardo storico per la Turchia. Fa gol, come detto, in tutti i modi: gioca centravanti, ma svaria; ha un gran tiro da fuori, è freddo sotto porta, ha un buon dribbling ed eleganza. Attaccante moderno, completo. La maglia 26 del Besiktas quell’anno spopola sulle bancarelle intorno allo stadio. Anche quella rossa della nazionale, con il 17 sulla schiena, c’è da giurare che all’indomani di quella partita in terra nipponica, andò a ruba dalle sue parti.

Uscita alta di Rüştü. Lancio lungo con la manona destra per Arif Erdem, appena entrato. Stoppa e si gira sulla trequarti, salta un avversario aggirandolo e si invola. Scivolata di Daf, forse fallo. Tutti protestano, sì, no, arbitro! Il colombiano Ruiz non fischia e fa bene, Daf è entrato sul pallone, e forse sta per assegnare un fallo laterale alla Turchia; ma poco prima che la palla esca, spunta a una velocità impressionante la cresta di Umit Davala – siamo al 94′ e questo corre ancora come un matto – stop a seguire, alza la testa e crossa basso, a tagliare verso il centro dell’area. Ed eccolo lì. Taglia verso il primo palo e poco fuori dall’area piccola, ma defilato all’altezza del vertice, incrocia di controbalzo. Per un attimo, sembra un gesto alla Van Basten. Palla nell’angolo opposto, con Sylva immobile. È golden gol. È Storia per la Turchia. Ilhan corre, col suo bel viso e quel codino in alto, come un Beckham di Turchia, esulta, sorride, allarga le braccia, si butta a terra. E con lui tutta la Turchia. Nel mucchio di giocatori che si affastella sopra il goleador disteso in preda all’euforia, non ci sono clan, Hakan e Basturk si confondono nella marea rossa, su cui salta anche il buffo Şenol, dopo una corsa da pensionato in giacca e cravatta.

La Turchia è in semifinale. E sarà ancora contro il Brasile, vincitore questa volta senza polemiche. Anzi, sarà solo grazie al portiere con l’aria da pirata se finirà soltanto 1 a 0. Ci saranno altri 28′ per Mansiz, questa volta al posto di Emre, accanto a Hakan Sukur, ma senza gloria; o meglio: senza vittoria, che la gloria personale Ilhan se la guadagna tutta, alzandosi la palla col tacco per saltare un certo Roberto Carlos, che ci mette un po’ a capire dove sia passata la sfera. La Turchia, comunque, si rifarà nella finale per il terzo posto, contro lo spauracchio Corea del Sud.

Eh sì, perché alla fine la Germania ha fermato la cavalcata trionfale, sospinta da entusiasmo e venti sospetti, della squadra di Hiddink. Perchè quelli sono tedeschi, mica latini come portoghesi, italiani e spagnoli, che si sono fatti prendere dal clima incandescente e hanno perso, chi più, chi meno, la testa e la partita. Loro sono teutonici. I fischi non li ascoltano. I calci non li sentono. Anzi: rifilano loro qualche calcione ai rapidi coreani, che Ramelow e Mertesacker sono troppo macchinosi per inseguirli. Un calcetto per fermare l’ennesimo contropiede lo da anche Ballack, l’unico giocatore di vero talento di quella Germania, pratica all’ennesima potenza, e si becca un giallo che fa scattare la squalifica. Khan fa il suo dovere e lo fa alla grande. Insomma, cari coreani: non ce n’è, questi sono macchine, mica calciatori. Allora Neuville indugia un po’ sulla destra, crossa così così, arretrato per l’accorrente Ballack. Tiro, respinta, tap-in e 1 a 0. Michael esulta come farebbe un latino al torneo dei rioni. Non cambierà più il risultato e la Germania andrà all’ennesima finale, contro il Brasile di Ronaldo. Sarà due a zero, con doppietta del Fenomeno e Ballack a guardarlo in tuta a bordo campo.

La finale del terzo posto, il giorno prima, se l’era in pratica vinta da solo il solito Mansiz. Schierato per la prima volta dall’inizio, dopo 15” va in pressing sul difensore centrale Lee, ruba palla, arriva Sukur, piattone sinistro e gol. Come a dire: fanne uno anche tu, almeno non torni a casa a zero. Il pennellone di Adapazari sorride come uno che si è tolto un peso e vanno tutti ad abbracciarlo, ma proprio tutti. Che in fondo a quanto pare, ci si vuol bene da quelle parti: siamo uno spogliatoio – sembrano dire – mica una tribuna politica, no?

Al minuto 12 poi Basturk si avventa su una palla vagante – ma come, non è fallo? Sembrano dire gli increduli coreani – verticale per Mansiz che punta l’avversario; arriva Hakan Sukur, veloce come mai si era visto in tutta la sua carriera: cinquanta metri di scatto per sovrapporsi, ricevere e chiudere il triangolo con il portiere in uscita. Mansiz fa 2 a 1, facile facile. I due si guardano e sorridono: e se ci avessero fatto giocare un po’ di più assieme? sembrano dirsi. Poco dopo la mezz’ora è già 3 a 1. Ancora Sukur che va in cielo e fa la torre per Mansiz che arriva a rimorchio. Uno-due con il compagno di reparto e tocco sotto sul portiere in uscita.

Alla fine, sarà un incredibile – viste le aspettative iniziali – medaglia di bronzo e la soddisfazione di essere l’unica squadra ad aver battuto entrambe le nazionali organizzatrici. Di fatto, questa Turchia ha perso solo contro i pentacampeon e senza sfigurare.

Dopo il Mondiale Ilhan riprende la sua maglia numero 26 del Besiktas. Ma ha un ginocchio che fa storie e non si vuole sistemare. Un anno in Giappone, perché no? Con le immagini dei suoi gol mondiali ancora fresche, trova subito un ingaggio. Ci sta poco. Prova a accasarsi all’Herta Berlino, per un trionfale ritorno alle origini. C’è anche il suo connazionale Basturk. Ma il ginocchio si rompe di nuovo, l’Herta esercita una clausola contrattuale e rescinde. Ha appena 30 anni, il Van Basten turco, ma dice basta, proprio come il più illustre olandese. In realtà ci riprova, nella squadra di Ankara: 9 presenze e 4 gol. Magari ancora qualche stagione, magari a ritmi più blandi…e invece no; come se non bastassero le ginocchia martoriate, un pomeriggio del 2007 viene investito sulle strisce pedonali. Stavolta è basta davvero.

Però Mansiz ha un cuore grande. E allora si innamora. Durante la versione turca di Dancing on Ice. Lei è la bella Oľga Beständigová, pattinatrice slovacca che partecipò, tra l’altro, alle Olimpiadi di Salt Lake City del 2002, in coppia col fratello. Già, proprio nel 2002, l’anno in cui il bell’Ilhan fece impazzire la Turchia. Ilhan ha 33 anni e non ha mai indossato un paio di pattini da ghiaccio. Insieme fanno un po’ ridere. Lui ha il fisico da calciatore, le gambe un po’ arcuate ed è alto 1,84. Lei è aggraziata e minuta, alta poco più di un metro e mezzo. Però si amano e Mansiz si accorge che gli piace pattinare. Gli riesce anche bene. Non bene come certi tiri da fuori con la maglia del Besiktas, ma abbastanza bene da farne una cosa seria. I pattini scivolano, le coreografie funzionano come uno schema su calcio d’angolo ben congeniato. E allora perchè non provarci? C’è una competizione, a pochi chilometri da dove sei nato, Ilhan, che qualifica alle Olimpiadi di Sochi. Andate.

Se fosse andata bene, sarebbe stato più di un Mondiale; sarebbe stato un gol in rovesciata per battere il Brasile e uno in serpentina contro la Germania, saltando Khan con uno sberleffo. Ma non è andata, anche se la favola di Ilhan e del suo amore è stata bella. Come quella della Turchia entrata nella storia grazie a quella traiettoria magica al minuto 94′ di Turchia-Corea del Sud. Come la favola di un turco, figlio di immigrati in Germania, che impara a far gol e torna a casa per farlo vedere, che si alza dalla panchina e diventa eroe nazionale, che si rialza mille volte da un lettino d’ospedale e anche, infine, dal duro asfalto e non si stufa mai di inseguire i suoi sogni con eleganza, che sia correndo sull’erba coi tacchetti delle scarpe o sia scivolando sul ghiaccio con le lame dei pattini. Tutto sommato, è andata molto meglio a lui che a Hakan Sukur, che insegue un posto in Parlamento.
 
di Simone Sciutteri

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