Lucescu: “Juventus esempio da seguire, Milan no”

Mircea Lucescu, allenatore dello Shakhtar Donetsk, si è confessato in una lunga intervista a Extratime. 

Fonte: wikipedia

Sul suo approdo allo Shakhtar.
“Hanno iniziato a cercarmi al Galatasaray. Ne sapevo poco, incontrai un loro rappresentante a Bucarest. Il presidente doveva mandarmi un aereo, ma c’era maltempo e non se ne fece niente. Vinsi il campionato, andai al Besiktas, lo rivinsi e buttai fuori in coppa la Dinamo Kiev. Lo Shakhtar mi invitò di nuovo, venni qui e al presidente dissi ancora no: volevo giocarmi la Champions. Akhmetov poi venne a Istanbul: altro no. Mi fa: “Hai vinto due campionati di fila, non te ne fanno vincere un altro”. Andammo a +11, ci successe di tutto e capii che aveva ragione. Mi invitò di nuovo, e gli promisi: riparliamone. Finì la stagione, me ne andai qualche giorno in Italia e lui mandò pure lì un aereo. Arrivai a Donetsk e mi presentò a tutti come nuovo allenatore. Che potevo fare?”.

Sulla scelta dei brasiliani.
“All’epoca il Barcellona prendeva i migliori. Io dissi al presidente che non potevamo permetterci quelli già formati: qui non vengono, e se vengono è per soldi. Quindi decidemmo di prenderli giovani, di talento, ed educarli fino ad avere giocatori completi. Si dice che ne puoi prendere uno, due, dopo il terzo fanno gruppo a sé. È vero, fanno gruppo, vivono la loro cultura, ed è giusto. L’abilità sta nel rispettarli e fare in modo che si integrino”.

Sulle difficoltà nel prenderli.
“Era difficilissimo. Qui c’era solo Brandao ma non si adattava. Così prendemmo Matuzalem: giovane, formato, di “nome”. Con lui è stato più facile convincere gli altri, ora in Brasile tutti parlano dello Shakhtar e sono loro a voler venire. Ci ho provato pure con Neymar, a 16 anni. Devi lavorare per farli diventare professionisti per l’Europa, lì sono molto “allegri””.

Il segreto per fare grande una squadra.
Ci sono 2 modi per fare la squadra: coi soldi, se non hai tempo, o coi giovani. Nel secondo caso il gruppo te lo ritrovi per 10 anni, basta cambiarne un paio per volta. Il segreto è questo: chi comanda ha una filosofia, trova un allenatore che ha la stessa filosofia e la trasmette ai giocatori. Se tutti pensano nella stessa direzione, arrivano anche i risultati”.

Sull’esperienza a Pisa.
“Era il 1990, avevo vinto campionato e coppa con la Dinamo. Anconetani venne a vedermi in Romania, e promisi che sarei andato da lui. Le racconto questa. Dopo Pisa ero del Porto: andai lì con mia moglie, Pinto da Costa mi mise per due giorni in un appartamento in segreto, firmai. Poi stracciai l’accordo e decisi di rimanere da voi, a Brescia. Ero innamorato dell’Italia, l’unico Paese dove ogni squadra giocava un calcio diverso. Non c’era la federazione che ne imponeva uno, come in Spagna o in Francia. L’allenatore poteva creare, se aveva libertà di farlo. Ecco, quella spesso non c’era: i presidenti vivevano di calcio e ti facevano pressioni per far giocare l’uno o l’altro, per venderli. E qui mi resi conto di un’altra cosa…Il campionato migliore in Italia era la B, il campionato degli allenatori. La A era il campionato dei presidenti, chi ha più soldi vince. La B italiana produce allenatori, quelli bravi devono andare lì”.

Sulla diversa mentalità italiana.
“Portai il Brescia in A e Corioni ne diede via quattro. Lo stesso a Pisa, così era impossibile. Mi mancava questo tipo di rapporto tra presidente e allenatore. In Italia un allenatore non può essere protagonista, ha bisogno di tempo e titoli per essere stimato. I presidenti cercano di svicolare e cambiare tecnico per essere loro i protagonisti. Sono gelosi”.

Sulle difficoltà delle italiane in Europa…
“Innanzitutto c’è da dire che l’Italia ha snobbato un po’ l’Europa. Per esempio, quando ho visto il Napoli che ha giocato in casa del Dnipro con le riserve ho detto: “Impossibile”. Puoi cambiarne un paio ma non mezza squadra, così dai l’impressione che non ti interessa. L’Europa ti guarda, qui spesso sbagliate. I mezzi per risalire ci sono. Però vincere e piazzarsi bene non dev’essere un traguardo, ma una tappa per l’Europa”.

Su quali esempi sarebbero da seguire…
“La Juventus: stadio di proprietà, serietà, atleti educati secondo lo spirito del club. Non gente che viene così, per un anno o due: li prendono giovani, crescono con la squadra, le danno tutto. Anche l’Inter ha preso questa via. Il Milan invece è rimasto col suo modo di pensare: li prende a fine contratto, di nome, pensa molto all’immagine e poco a costruire. Come fai a costruire con gente di 34-35 anni? Non saranno mai parte della tua anima”.

Sul prossimo fondamentale incontro con la Juventus in Champions…
“La Juve la rispetto molto, ho seguito il processo che l’ha riportata in alto, fino ad avere di nuovo una squadra capace di lottare e vincere anche in Europa. E non lo fa solo coi giovani: guardate che motivazioni hanno gente come Pirlo o Buffon…”.

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