Viaggio a Zemanlandia

”Non importa quanto corri, ma dove corri e perché corri”. Il calcio di Zdenek Zeman potrebbe riassumersi così, in una manciata di parole utili a far capire che nulla deve essere lasciato al caso nei 90 minuti di una partita di pallone.

fonte: wikipedia.org/Paolo Magliani

FILOSOFIA Privilegio della fase offensiva (“dobbiamo difenderci attaccando”) e un sistema di gioco fortemente associativo fanno sì che i movimenti devono essere coordinati al massimo, soprattutto in quella che viene definita la “catena laterale”: terzino, centrocampista esterno e ala devono avere lo scopo di crearsi spazio a vicenda ed avanzare verso la porta avversaria. Un concetto che nella patria dell’utilitarismo calcistico, dove solitamente vince chi prende meno gol, fa storcere il naso a molti. E in effetti il fenomeno-Zeman si basa proprio su un paradosso. Da un lato il grande entusiasmo dei tifosi (e dei giocatori) delle squadre che ha allenato, che spesso dopo più di un decennio ancora lo rimpiangono. Dall’altro il grande ostracismo dei poteri forti del mondo del calcio, che non hanno affatto gradito le accuse di doping e di frode sportiva del boemo e per parecchi anni lo hanno ostacolato non poco costringendolo all’esilio all’estero oppure relegandolo nelle serie minori. Era scomodo, forse ancora lo è.

RITORNO Nel suo clamoroso ritorno a Roma, sponda giallorossa, a distanza di 13 anni non può non esserci anche un pizzico di spirito di rivincita. Il presidente Sensi che lo scelse nel 1997, lo cacciò nel 1999 (proprio il 4 Giugno, corsi e ricorsi storici) per prendere Capello “un allenatore più gradito al Palazzo”, quel Palazzo a forma di cupola mafiosa smascherato da Calciopoli nel 2006. Non che i risultati di Zeman fossero stati così mediocri, il primo anno ottenne un quarto posto con una squadra che l’anno prima era arrivata dodicesima (salvandosi solo alla quart’ultima giornata) mentre il secondo anno conquistò un quinto posto. Era il calcio delle “sette sorelle”, il calcio italiano era ancora il migliore (e forse il più difficile) del mondo. Anche per quanto riguarda gli acquisti il tecnico non visse un rapporto facile con il presidente Sensi. Chiese Stankovic e arrivò Ivan Helguera, chiese Shevchenko e gli fu preso Fabio Junior, chiese Montella (che arrivò a Trigoria nell’estate del suo addio) e gli fu portato Bartelt. Volle e fortunatamente ottenne Cafu, ma non potè mai contare su calciatori come Samuel, Emerson e Batistuta che due anni dopo fecero le fortune della Roma di Capello, vincendo il tricolore.

TIFOSI Se c’è una costante nella carriera di ‘Zdengo‘, oltre al gioco offensivo, è l’amore dei tifosi. Non solo dei tifosi delle squadre che ha allenato, ma più in generale dei tantissimi amanti del calcio che vedono in lui un esempio di lealtà e correttezza sportiva in un mondo troppo spesso avvezzo a scandali di vario genere. Nonostante la mancanza di trofei in bacheca (come gli ricordano fin troppo spesso i suoi detrattori), Zeman in questi 13 anni ha continuato a riscuotere un fascino tutto particolare, sopratutto per i tifosi della Roma. È stato adottato dalla città (dove ha continuato a vivere), difeso nelle sue battaglie contro il calcio dopato, rispettato per il suo integralismo («modulo e sistemi di allenamento non li cambierò mai, per coprire il campo non esiste un modulo migliore del 4-3-3»), ammirato per i suoi metodi di lavoro («pretendo che ogni giocatore dia il meglio di se stesso, nel rispetto dell’esigenza di fare spettacolo. Se non vinciamo, nessun dramma. Mi basta che i ragazzi abbiano dato il massimo») e per la totale mancanza di machiavellismo sportivo («non è vero che non mi piace vincere: mi piace vincere rispettando le regole»). E infatti, puntualmente, è stato lui il nome invocato a gran voce dalla piazza giallorossa per il dopo-Luis Enrique. Dal “Datece Zeman” esposto all’Olimpico in Roma-Fiorentina, allo “Zeman tutta la vita” del gruppetto di tifosi presenti a Trigoria il 26 maggio scorso fino al “Grazie maestro di aver scelto con il cuore” portato addirittura davanti al Colosseo, nel giorno della firma. Segno evidente che l’utopia di Zemanlandia è rimasta nel cuore dei tifosi romanisti.

FUTURO Se è vero come è vero che ‘la Padania non esiste ma Zemanlandia sì‘, l’utopia è arrivata alla sua ultima spiaggia, come ammesso dallo stesso tecnico boemo nella conferenza d’addio al Pescara («è la mia ultima possibilità di allenare una grande squadra»). L’ultima possibilità di dimostrare che anche il bel calcio può essere vincente, in un paese che molto raramente vede primeggiare le squadre più spettacolari. In Italia vince chi prende meno gol, si dice. Ma non ditelo a Zeman, lui va avanti a testa alta e con le idee chiare. Davanti a vittorie, pareggi o sconfitte. E forse è per questo che è così tanto apprezzato. Perché al di là delle vittorie che si misurano con trofei metallici o riconoscimenti pubblici ce ne sono altre, forse più importanti. A dispetto di ciò che dicono i potenti del pallone o i tifosi del risultato a scapito di ogni valore morale, lui vince ogni domenica. Cattura l’attenzione del pubblico, riesce a regalare emozioni e fa divertire. Lui è il Calcio all’ennesima potenza. Bentornata a Roma, Zemanlandia.

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