La voce del silenzio, “dirige” l’orchestra: Luis Enrique

Luis Enrique da allenatore del Barcellona B a caposaldo del progetto Roma nel 2012. Siamo alla volata finale di campionato e la Roma, clamorosamente è il caso di dire, si trova a lottare ancora per un posto in Europa.

Fonte immagine: Danilo Rossetti

“Clamorosamente” è l’avverbio più idoneo, viste le tante chance sprecate dai giallorossi per imporsi sulle dirette concorrenti. Troppo facile parlare adesso del famoso “rigetto del progetto”, dopo aver visto l’ennesima partita giocata al di sotto degli standard, quella disputata contro il Lecce al Via del Mare. I giocatori non vanno, svogliati o anarchici alle indicazioni del proprio tecnico, fatto sta che davanti ci troviamo una squadra allo sbando, senza una vera e propria identità. Vorrebbe giocare come il Barcellona, si guarda al modello spagnolo, ma come gioca la Roma? O meglio, che fine ha fatto la Roma?

Sì, perché i giallorossi hanno sempre avuto e posseduto una certa quadratura, nel bene e nel male, o c’è crisi oppure va tutto bene. Le due strade che conciliano il bivio dello sport calcistico sono sempre state intraprese, in un senso o nell’altro, in maniera netta. Nei cicli precedenti c’era sempre un accordo, almeno nelle dichiarazioni, tra team e allenatore che si rispecchiava sul campo. Una coerenza di base, che permetteva di comprendere a chi guardava (tifosi e addetti ai lavori) la situazione generale e il suo evolversi. Si veda il caso Ranieri: allenatore che, nel 2010, partendo con un handicap, ha portato poi la Roma a giocare per il titolo in un testa a testa contro l’Inter. Successivamente, dopo una stagione, si dimise (non si era mai dimesso da alcuna squadra prima) dopo una partita, l’ennesima giocata male, sprecata (Genoa-Roma 4-3). Le dimissioni furono quasi consequenziali, dopo che questi si rese conto che lo spogliatoio non lo seguiva più. Fu, insomma, un atto dovuto e di responsabilità, come si usa dire oggi. Adesso, siamo in una situazione simile, se non peggiore, infatti l’asturiano “vanta” un curriculum che vede ben 14 sconfitte (cifre da retrocessione), tra cui, due derby persi (Ranieri non ne perse uno). Anche qui, lo spogliatoio sembrerebbe non seguire, o meglio, non concepire le direttive del coach.
L’unica differenza, a parte quella temporale, sta nel fatto che, con Ranieri, la presidenza prese atto di tale debacle e accettò l’uscita di scena, inevitabile, del tecnico. Invece, adesso, non solo il buon Luis non rassegna le dimissioni, dopo un’altra gara ai limiti del difendibile, ma la società continua ad attribuirgli fiducia. Fiducia che, stando ai fatti del campo, non sembra essere ricambiata da squadra e tifoseria. La domanda sorge spontanea: “Cosa si aspetta a prendere provvedimenti?” Non vogliamo dettare e suggerire mosse a nessuno, ma il quisillibus sorge nel momento in cui tutti hanno potuto notare l’atteggiamento usato dal tecnico, il quale ha assistito alla disfatta dei suoi senza battere ciglio. Ha passato 90 minuti seduto, senza dare indicazioni o cercare di rimettere in piedi una partita che, francamente, poteva essere ribaltata, soprattutto quando il Lecce era sul 2-0.
Nerone che, mentre bruciava Roma, suonava la sua arpa. Questo sembrava essere Luis Enrique, tant’è che sono iniziate a circolare voci, sulle sue dimissioni rassegnate, secondo alcuni rumors, prima della gara. Spiegazione questa, che giustificherebbe l’atteggiamento adottato in partita. Notizia prontamente smentita da Sabatini: “La posizione di Luis è solidissima”.
Tutto è a posto, l’allenatore fa il suo lavoro e la dirigenza approva. Allora, come mai la squadra non sembra rispondere adeguatamente? Altra domanda che affiora all’orizzonte. Nessuno si muove, tanto più, parla o traccia un profilo omogeneo della situazione. Ognuno è soddisfatto, nell’ambiente societario, di come sta prendendo forma la nuova Roma. Quindi, se non arrivano le dimissioni e si continua a riporre fiducia al Luis Enrique pensiero, c’è da intendere che il problema risieda altrove. Siamo di fronte ad un chiaro errore di prospettiva, e non c’entra la tecnica o il modulo, si tratta di capire dove finisce la fantasia e comincia la realtà. Non basta, quella che fino adesso è stata la banale rassicurazione rincarata ad ogni conferenza stampa o post-partita, che fungeva da “oppio” per un tifo, passionale e insofferente, in attesa di risposte. Manca quell’umiltà di base che, a volte, ti fa anche dire “Forse è il caso di rivedere qualcosa”, oppure “Va bene così, possiamo procedere”. Adesso, quello che pervade l’ambiente romanista è uno sciame di silenzi, camuffati da sorrisi effimeri, che nascondono crepe ben più gravi sotto la superficie.
Un’ora e mezza di silenzio ha scardinato tante, troppe, promesse e garanzie, finora disattese, o meglio, parzialmente soddisfatte dalla società. E’ venuto il momento di “parlar chiaro” dentro e fuori dal campo.

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