Storie Mondiali-“L’ultimo ballo della Jugoslavia”, Argentina-Jugoslavia Italia ’90

Avevo otto anni e conoscevo a memoria gli almanacchi del calcio. Collezionavo le figurine, ovviamente. Potevo recitare le formazioni storiche, tipo Sarti, Burnich, Facchetti…; Zoff, Gentile, Scirea…; Felix, Carlos Alberto…Rivelino, Jhairzinho, Tostao, Pelè. Di calcio giocato ne capivo relativamente: in televisione non se ne vedeva a tutte le ore e mi nutrivo di 90° Minuto. Mi entusiasmai per l’Inter dei record, adoravo Nicolino Berti e i tedeschi. Mentre l’estate del 1990 si avvicinava, avevo già preso la mia decisione: al diavolo i compiti e la spiaggia, non mi sarei perso nemmeno una partita.

Fonte immagine: Wikipedia
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Oltretutto, giocando in Italia, si disputavano tutte a orari sostenibili anche da un bambino in vacanza. Fu così. A memoria, credo di essermi perso, tra la cerimonia di apertura e la finalissima, solo Germania-Colombia 1-1, partita del girone, anche se non ricordo il perché.
Ci sono un sacco di partite che ricordo ancora bene, piene di storie da raccontare. La partita di apertura, per esempio. Non capivo molto di calcio, come detto. E a otto anni l’amore per i cattivi esempi è ancora di là da venire. Maradona cominci ad amarlo da adolescente: in quegli anni per me era solo uno che giocava nel Napoli, avversario dell’Inter, che faceva quello che voleva, protestava e si comportava un po’ sopra le righe. Aveva fatto un gol di mano ai mondiali precedenti. Gli tifai contro tutto il torneo e lo odiai quando sussurrò in mondovisione “hijos de puta” a i tifosi che fischiavano l’inno. Non aveva tutti i torti, ma non potevo capirlo. Col senno di poi: di calcio giocato ero veramente a zero. Fui perciò contento quando Omam-Biyik restò in aria dieci secondi, come un semidio nero venuto a punire i presuntuosi campioni in carica e di testa infilò un disastroso Pumpido. Il senno di poi nel calcio andrebbe abolito, ma di fatto senza quella papera Goicoechea non avrebbe mai visto il campo e l’Argentina non sarebbe mai arrivata in finale. Poi quel Camerun tirò fuori dal cilindro anche un certo Roger Milla, anni quaranta (?) e ancora tanto talento. E che storie da raccontare. Fino ai quarti con l’Inghilterra, che non vide quasi mai il pallone a un certo punto della partita, e fu salvata da due rigori e dall’ingenuità della squadra africana.
Anche il Belgio mi stava simpatico. Aveva quei nomi divertenti, tipo Versavel, Ceulemans e Van Der Linden. E in mezzo al campo schierava il romantico dalla faccia triste, Vincenzino Scifo, che non aveva lasciato il segno, ma aveva giocato nell’Inter un paio d’anni prima ed era anche mezzo italiano, figlio di minatori siculi che si trasferirono in Belgio quattordici anni prima della sua nascita. In porta c’era Preud’homme, che per me insieme a Zenga era Il Portiere. Anche loro fuori con l’Inghilterra, agli ottavi, al termine di un’epica partita risolta dall’allora sconosciuto ai più David Platt.
Ricordo poi un pomeriggio passato a guardare una brutta Argentina-Brasile, con Careca dalle polveri bagnate, Muller intristito e spaesato, in un Brasile che rinnegava l’intera sua tradizione calcistica, badando al sodo e scalciando ripetutamente Diego – di fatto l’unico uomo propenso a giocare a calcio quel giorno tra i 22 in campo – ogni volta che toccava palla. L’unica volta in cui non ci riescono – anche se ci provano, eccome – Maradona si incunea in mezzo alla difesa, attira a se tre difensori e libera tutto solo Caniggia davanti a Taffarel. Dribbling e gol. Ci sarà tempo ancora per un paio di calcioni di frustrazione ai danni del 10 argentino (uno orribile rifilatogli da Branco, quasi allo scadere) e poi solo festa per l’Albiceleste che vola ai quarti.
Fu un mondiale pieno di rigori. Bonner che para quello di Timofte e manda l’Irlanda ai quarti (contro l’Italia). I due di Lineker contro il Camerun. Quello di Matthaus contro la Cecoslovacchia. E quelli che decisero le semifinali. Illgner e Goicochea sugli scudi. Zenga, super portiere, ma non para-rigori.
E in mezzo a tutto questo ci fu Argentina-Jugoslavia. Un po’ contro Maradona, anche perché non volevo trovarmelo di fronte in semifinale, e un po’ per simpatia, tifavo per quelli in maglia bianca.
Di quel che stava succedendo a casa loro, all’epoca, non sapevo nulla. Persino quando arrivarono notizie dei primi scontri, ci misi un po’ a capire che c’era la guerra, quella vera, a due passi da casa.
Ma quel pomeriggio fiorentino si giocavano i Mondiali, i Balcani sembravano lontanissimi. Era calcio e tutto pareva andasse bene.
Firenze, stadio Artemio Franchi, un bel pomeriggio di sole. Sulle tribune slavi e argentini si distinguono solo per il colore della pelle, perché le magliette, quel pomeriggio, addosso non le ha nessuno. L’estate è scoppiata e quel 30 luglio fa molto caldo.
Sugli spalti – altri tempi davvero – spicca uno striscione: pizzeria Carlotta, su sfondo biancazzurro; sono tifosi arrivati da Napoli a tifare Maradona.
La partita è combattuta, l’Argentina gioca meglio rispetto al match contro il Brasile, merito anche della Jugoslavia, che va in campo senza alcuna soggezione. Anche i suoi difensori trattano Diego con le dovute maniere: rudi. Ma lo svizzero Rothlisberger era un tipo un po’ più fiscale del collega francese Quinon, che arbitrò l’ottavo contro il Brasile: alla mezz’ora Šabanadžović stende il numero dieci che sulla trequarti aveva dato il via a una delle sue accelerazioni, quelle esplosive, con la palla spostata sempre un attimo prima che il difensore arrivi con la punta del piede, baricentro basso, imprendibile. Fallo, secondo giallo e Jugoslavia in dieci.
Ma quella era una squadra fortissima. C’era la generazione d’oro, quella che nel 1987 aveva vinto i Mondiali under 20. In Cile c’erano Mijatovic, Stimac, Boksic, Prosinecki, Savicevic, Jarni, Suker. Gli ultimi quattro si erano guadagnati la convocazione di Osim per la nazionale maggiore. Là in Cile, tra anni prima, c’era anche un certo Zvonimir Boban. A Italia ’90 no. Nonostante fosse il capitano della Dinamo Zagabria, nonostante fosse un talento puro e giovanissimo. Perché Boban quel pomeriggio guardò la partita sul divano di casa?
13 Maggio 1990, poco più di un mese e mezzo prima. Zagabria, stadio Maksim. La Dinamo ospita i rivali della Stella Rossa di Belgrado. Non corre buon sangue tra le due tifoserie, da sempre. Ma da un po’ di tempo a questa parte c’è di più. C’è qualcosa che col calcio non dovrebbe centrare quasi niente. E invece. La settimana prima si era svolto il secondo turno delle elezioni in Croazia e le aveva vinte Franjo Tuđman. Tuđman era alla guida di Unione Democratica Croata, un partito che attingeva un po’ dalle ideologie panslave e un po’ da quelle del separatismo croato. Ex generale, destroide, critico nei confonti di Tito e del Partito Comunista e adesso in contrapposizione con il Partito Socialista di Slobodan Milosevic. Un uomo perfetto per parlare alla pancia di un paese perennemente scontento e in fibrillazione. Qualche migliaio di tifosi serbi arriva a Zagabria. In testa, Željko Ražnatović: la futura “tigre Arkan”, capo delle formazioni paramilitari che si macchiarono di crimini di guerra e di cui Milosevic si servì per le sue operazioni di pulizia etnica. Dall’altra parte, i Bad Blue Boys, gli ultras della Dinamo. Prendono il nome dal film con Sean Penn del 1983: Bad Boys. Ragazzi cattivi. Lo sono davvero. Molto cattivi, tanto che ancora oggi non c’è stadio in Europa che abbia voglia di ospitarli. In mezzo, la polizia jugoslava, in prevalenza serba e, di fatto, nelle mani di Milosevic. Gli incidenti sono inevitabili. Quando i croati invadono il campo e, sì, per far casino e però pure per scappare dai lacrimogeni della polizia e dai seggiolini che arrivano dal settore ospite, la polizia li respinge. C’è un fotogramma di quel pomeriggio folle: una maglia numero 10 che calcia un poliziotto, come fosse un calcio di punizione dal limite. Punizione perché il poliziotto stava picchiando un tifoso della Dinamo. Dovere di capitano, per il giovane Boban, che non si pentì mai d’averlo fatto. Scampa all’arresto, ma si becca nove mesi di squalifica e dice addio al mondiale. Alla fine si conteranno 138 feriti e 147 arresti. Con il senno di poi – ma non avevamo detto che dovremmo lasciarlo da parte? Sì, ma qui non si parla di calcio – quella era già guerra civile. In campo, quel giorno, c’erano anche Šabanadžović, Suker e Panic, con la maglia della Dinamo. Stoikovijc, Pancev, Savicevic e Prosinecki con la maglia della Stella Rossa. Quella era la Stella Rossa migliore di sempre, una squadra capace di vincere una storica Coppa dei Campioni. La sera della finale, a Bari c’erano anche Jugovic e Mihajlovic (che in quegli anni strinse amicizia proprio con Arkan). C’era anche Stojkovic, ma con la maglia del Marsiglia, che se l’era comprato dopo i Mondiali spettacolari che il numero 10 slavo aveva disputato.
Anche quel pomeriggio Dragan non sfigurò nel confronto con Diego, anzi: fu probabilmente il migliore in campo. Destra, sinistra, dribbling secco e cross, assist. Si caricò la squadra sulle spalle e mise paura all’Argentina. A un certo punto se ne va via sulla destra, finta l’affondo, fa una veronica e torna sui suoi passi; alza la testa e di esterno destro crossa per l’accorrente Jozic, sinistro al volo e palla alta di pochissimo. Jozic in Italia è di casa. È arrivato a Cesena dopo aver fatto la trafila delle giovanili nel Sarajevo, come tanti giocatori importanti di quella zona. È croato-bosniaco, nato a Konijc, 50 chilometri a sud della capitale. Da quelle parti, un paio di anni dopo, sorgerà un campo di concentramento per prigionieri serbi. Dalle parti di Sarajevo sono nati o passati anche Hadžibegic, Šabanadžovic, Baljic e Sušic, oltre all’allenatore Ivica Osim. Jozic non è l’unico a giocare all’estero, ovviamente. Safet Sušic, per esempio, dal 1982 gioca nel Paris Saint German e ne è una delle stelle. Gioca spesso a centrocampo, ma è un goleador nato. Si dice che nel Sarajevo abbia segnato 400 gol in 600 partite. Un campione, uno dei “vecchi” di quella nazionale, una delle guide. Chi ancora gioca in patria, a cavallo del mondiale lascia il campionato jugoslavo e se ne va a giocare all’estero. In pratica, nessuno di loro tornerà a giocare da quelle parti. Anche alla fine della guerra, sarebbe stato complicato. Uno come Ivković, portierone dello Sporting Lisbona, croato che aveva giocato prima nella Dinamo e poi nella Stella Rossa, dove sarebbe potuto andare? Peraltro, non indossò altre maglie nazionali, dopo la dissoluzione della Jugoslavia. Anche il mister Osim disse addio alla nazionale poco dopo i mondiali. Anzi: disse addio alla Jugoslavia tutta. Non aspettò che la FIFA escludesse la nazionale Jugoslava (già monca di Croazia e Slovenia) da tutte le competizioni, abbandonò la panchina della squadra che aveva appena qualificato agli Europei in segno di solidarietà alla sua città natale, Sarajevo, il cui assedio era appena cominciato.
La Jugoslavia gioca bene. Molto meglio degli argentini. Ancora Stojkovic, poco prima della mezzora: cambio di gioco a pescare Prosinecki, dribbling secco e diagonale destro dal vertice dell’aria, forte, fuori di pochissimo. Robert era talento purissimo. Miglior giocatore del Mondiale under 20 del 1987, faro della Stella Rossa campione d’Europa. Lui, croato, scartato dalla Dinamo Zagabria. Nel ’91, dopo la vittoria in Coppa Campioni, si trasferirà al Real Madrid e in Spagna giocherà per cinque stagioni, vestendo anche la maglia dei catalani del Barcellona. Un recidivo, insomma.
La Jugoslavia, in inferiorità numerica, tiene testa ai sudamericani, anche se nel secondo tempo il gioco argentino migliora in fluidità. Quando la difesa perde qualche inserimento, ci pensa Ivkovic. E anche la fortuna da una mano: Ruggeri, centrale del Real Madrid neo campione di Spagna, colpisce una traversa sugli sviluppi di una punizione. Ma è ancora il numero dieci in maglia bianca ad ispirare: prima dalla destra, con un cross che Susic stoppa male, facendosi chiudere da Goicoechea; poi, nel primo tempo supplementare, con una giocata meravigliosa dalla sinistra, con un cross dal fondo che mette Savicevic nelle condizioni di girare in porta da pochi metri. Palla alta. Era l’occasione per chiudere la partita. Invece si andrà ai calci di rigore. I giocatori sono bolliti. Quel pomeriggio a Firenze fa davvero molto caldo. 120′ li senti nelle gambe, mentre bevi per recuperare almeno un po’ dei litri d’acqua scivolati via in sudore e ti concentri per calciare al meglio il rigore.
La Jugoslavia multietnica è a undici metri dal sogno di una semifinale. Chissà, mi chiedo adesso, come avrebbero esultato per le strade della Jugoslavia? Mischiandosi fra di loro o ciascuna etnia per conto proprio, con le maglie dei propri idoli personali o magari con le sciarpe dei club? Si sarebbero sentiti, ancora per un attimo almeno, un paese solo?
In quella nazionale c’erano sette giocatori di origine croata; quattro serbi; due montenegrini; uno sloveno (Katanec, lungagnone di centrocampo che vincerà lo scudetto con la Sampdoria di Vujadin Boskov), e sei di origine bosniaca. Il capitano era Vujovic, che era croato, ma soprattutto era un signor attaccante: centro gol ai tempi dell’Hajduk Spalato e tanti altri nel campionato francese. Era compagno di Susic al Paris Saint German e i due si intendevano alla grande.
Si arriva ai calci di rigore.
Serrizuela, destro di collo alla sinistra di Ivkovic, spiazzato. 1 a 0.
Stojkovic va sul dischetto. Un paio di palleggi e poi sistema la palla con cura. Destro potente a incrociare e traversa, con Goicoechea dall’altra parte. Dragan torna a centrocampo coprendosi la faccia con la maglia.
Burruchaga, eroe della finale del 1986. Tiro simile a quello del 10 jugoslavo, ma qualche centimetro più in basso. Gol.
Il biondo Prosinecki, con la sua aria da tedesco, impassibile, incrocia il destro spiazzando il portiere argentino e tiene viva la Jugoslavia.
Prosinecki fu uno dei pochi a rientrare in patria a conflitto non del tutto chiuso. Madre serba e padre croato, dopo la secessione si professò croato. Nell’estate del ’95, dopo qualche stagione senza affermarsi quanto il suo talento gli avrebbe permesso, rientrò a Zagabria, per giocare in quella che adesso si chiama Croatia Zagabria. Nei preliminari di Champions League contro il Partizan Belgrado, in un clima blindato per il quasi concomitante giuramento di Slobodan Milosevic come presidente della Federazione Jugoslava di Serbia e Montenegro. La pace completa era ancora di là da venire ed anche la verità, ammesso che ne esista una, e i processi e le condanne. C’era allora solo una partita di calcio, che doveva filare liscia a tutti i costi e che, per la cronaca, finì 1 a 0 per il Partizan all’andata e 5 a 0 per lo Zagabria al ritorno.
Ma torniamo a Firenze, quel 30 giugno 1990.
Fonte immagine: Wikipedia
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Sul dischetto sta arrivando Maradona. Un po’ in ombra oggi, forse anche un po’ ammaccato dalle botte brasiliane di qualche giorno prima e dalla razione slava di quest’oggi. Rincorsa e piattone sinistro, ad aprire. Ne esce fuori un rigore da dilettante, debole e poco angolato. Ivkovic, addirittura, lo blocca. Diego se ne va scuotendo la testa, con quel passo deciso e il petto gonfio, ma con l’espressione contrariata, come a dire: com’è possibile? Io sono Diego! Eppure: il suo errore rimette in corsa gli avversari. Lo stadio di Firenze, nonostante gli “infiltrati” napoletani, in maggioranza esulta, a mo’ di sberleffo. A dire il vero, Diego di fischi e di tifo contro ne ha già beccato parecchio, segno che nella mia infantilità dell’epoca, avevo intuito gli umori della massa. Per fortuna, imparai presto a distaccarmene.
Ivkovic sembra incredulo: non gli sembra vero che Diego gli abbia fatto un regalo del genere e si guarda intorno allucinato. Ma forse si è semplicemente accorto solo ora della maglia che indossa. Un orrore giallo con sottili scarabocchi neri, in pieno stile anni novanta.
Certo, quella di Goicoechea è ancora peggio: motivo psichedelico ancorato agli anni ’80. Di fronte a quell’obbrobrio adesso c’è Savicevic. Dejan non si scompone, accarezza la barbetta e di piatto sinistro spiazza il portiere, che si tuffa a vuoto sulla sua sinistra. Forse qualcuno sta pensando: ma non sarebbe meglio avere Pumpido in porta invece di questo sconosciuto venuto dai Milionarios?
Tocca a Troglio, che sotto i riccioli ha già un’espressione preoccupata, come se sapesse. Portiere a sinistra, palla a destra, ma sul palo.
Hadžibegić sistema la sfera e si allontana per la rincorsa. Ma il fiscale Quinon ferma tutto e corre verso il centrocampo. No no, caro Faruk. Non tocca a te. Io qui ho scritto: numero 7; tocca a Brnovic. Ecco allora Dragolijub, centrocampista del Metz, che si avvia corricchiando verso l’area, da il cinque al suo compagno, sistema il pallone, si gira, conta i passi, si rigira e calcia. Angolato, ma debole. Goicoechea intuisce e para. Dicevate di Pumpido?
I tifosi jugoslavi forse hanno già capito: è stato un momento da sliding doors, quell’incrocio tra il 5 e il 7 sulla trequarti. Niente che faccia presagire qualcosa di buono. Il replay ci dice che Brnovic ha calciato proprio male: piede d’appoggio lontano dalla palla, caviglia che si ritorce, passo lungo. Un disastro.
Dezotti, centravanti della Cremonese ed ex Lazio può riportare avanti l’Albiceleste. Fischi di Firenze. Lunga rincorsa. Lo fa. Con un collo interno destro forte, a incrociare, a fin di palo. Ivkovic intuisce, ma non ci può arrivare.
Ecco Hadžibegić. Il pallone pesa mille chili. Sembra che Faruk faccia quasi fatica a metterlo sul dischetto del rigore. Questo lo tira bene, anche se a mezza altezza. E non bisognerebbe mai, dicono gli allenatori, tirare un rigore a mezz’altezza. Ma il piatto destro è forte, abbastanza angolato. Però Sergio è una molla, un passo in anticipo e un balzo sulla sua sinistra e respinge. Fine.
Ciao ciao Jugoslavia, anzi: addio. Stojkovic rimane in ginocchio nel cerchio di centrocampo.
In pratica la favola finisce qui. Ci saranno ancora partite, le qualificazioni all’Europeo, mentre in patria il casino si fa sempre più grande e sanguinoso. Una nazionale via via più monca – via la Slovenia, poi la Croazia – si qualificherà per il torneo continentale, ma alle porte dell’estate del ’92 arriva il divieto della FIFA. Proprio non si può, ormai è guerra. Anche se, col senno di poi, si può dire che la guerra era già cominciata qualche tempo prima allo stadio di Zagabria.
L’ultima partita sarà un amichevole con l’Olanda, persa 2 a 0, il 25 marzo del 1992. La fascia quella sera la indossò proprio Hadžibegić.
Stojkovic è serbo. Hadžibegić della Bosnia-Erzegovina. Brnovic è montenegrino. Il dio del pallone ha scelto la par condicio. E anche Goicoechea non ha fatto preferenze. Chissà, forse se ci fosse stato lui a negoziare, avrebbero fatto la pace prima.
 
di Simone Sciutteri

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