Quando la Coppa è sinonimo di riscatto: finale da brividi fra Napoli e Fiorentina

La definizione “partita che vale una stagione” è spesso inflazionata, ma mai come quest’anno la finale di Coppa Italia rappresenta, per Fiorentina e Napoli, un’occasione per nobilitare un anno in cui entrambe non hanno espresso appieno tutte le loro enormi potenzialità.

Stadio Olimpico di Roma Fonte: Andrew - Wikipedia
Stadio Olimpico di Roma
Fonte: Andrew – Wikipedia
Per la formazione di Montella l’annata dovrebbe fruttare con ogni probabilità la conferma del quarto posto: i gigliati hanno migliorato il rendimento lontano dal Franchi (31 punti a 27 con una partita da giocare). Ma paradossalmente faticano in casa, con appena 30 punti raccolti (in 17 gare) rispetto ai 42 del 2012/2013: inoltre, hanno trovato con minor facilità la rete (1,68 contro 1,89 gol a partita).  Il problema della Fiorentina è soprattutto di logorio fisico, dato che quest’anno si è giocato tanto sui tre fronti: finale in Coppa Italia (la prima dal 2001) e ottavi in Europa League. La squadra toscana oggi è al suo 52esimo match ufficiale, dieci in più dell’anno scorso.

La differenza sta lì: i viola sono talentuosi, ma non numerosi. In difesa dietro Rodriguez e Savic i ricambi sono discutibili; il centrocampo è tecnico, ma senza eccezionali portatori d’acqua o grandi atleti. E poi c’è l’attacco. Già, l’attacco: in sole 18 presenze, Rossi è ancora il capocannoniere in campionato con 14 gol, un quarto delle reti viola. Una manna dal cielo, specie se il tuo acquisto principale dell’estate, Mario Gomez, ha fatto solo cinque presenze da titolare. Lasciando nel dubbio tutti quelli che si sono sempre chiesti cosa sarebbe questa squadra con un vero centravanti, domanda di cui l’ectoplasma Matri, arrivato a febbraio, certo non conosce risposta. Chissà cosa sarebbe stata la Fiorentina se almeno uno dei due “big” fosse rimasto sano e quel maledetto 5 gennaio a “Pepito” non fosse saltato il crociato. Anche il Napoli di Benitez ha le sue attenuanti, pur diverse: ad esempio la sfortuna in Champions nella mancata qualificazione con 12 punti all’attivo; o il terzo posto in campionato solo per via dello straordinario rendimento della Roma. Ma la realtà dice che i partenopei hanno perso tre punti rispetto all’era Mazzarri, segnano meno (1,82 a partita contro 1,92) e prendono qualche gol in più. Evidente poi la scarsa continuità rispetto a Juve e Roma: il poker di vittorie consecutive a inizio campionato rappresenta la striscia vincente migliore, troppo poco per tenere il passo.  In questa discontinuità di rendimento c’è tutto Rafa Benitez, allenatore che non vince un campionato dal 2004 (la Liga col Valencia). I suoi problemi però sono più concettuali che nei numeri: per imporre la propria idea di calcio, il passaggio alla difesa a quattro alta e al suo gioco elaborato serve tempo. La rivoluzione non si poteva attuare in un anno e probabilmente avrebbe avuto bisogno di uomini diversi: la graduale marginalizzazione dei mazzarriani è evidente, si vede soprattutto guardando al patrimonio Hamsik, diventato accessorio nella manovra offensiva a discapito dei più ficcanti Mertens e Callejon: lo spagnolo è di gran lunga l’uomo più utilizzato da Benitez (48 presenze e 3752 minuti giocati). La fotografia è di due squadre in chiaroscuro, che vogliono gioire per lavorare con più serenità in estate chi contro macumbe e infortuni, chi per completare una rivoluzione ancora in fase embrionale. Quale delle due alzerà la Coppa, panacea per far svanire i mali di una stagione? La risposta stasera all’Olimpico.

di Giuseppe Corrao

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