Esclusiva-Giacomo Losi: “La Roma mi cacciò inventandosi un mio infortunio. Dissi di no all’Inter di Herrera”

ROMA – Losi, si sa, non è mai stato un vip, un protagonista. Del resto era un atteggiamento atipico per quei calciatori che, negli anni sessanta,  giocavano a pallone non per soldi, ma per passione. Losi era un leader, a volte nascosto, a volte così in luce da diventare persino scomodo. Dopo aver conquistato l’Europa che conta ed aver intrapreso una piccola, ma curiosa parentesi da allenatore, Palla di Gomma“, come lo chiamava Barendson, oggi insegna il calcio. Il calcio che conta, quello di periferia. Alle spalle di un vecchio ponte abbandonato scorgo un’insegna: “Giacomo Losi”, a grandi caratteri. La strada, sterrata, mi porta al Nuova Valle Aurelia, società di cui è simbolo e presidente. Il campo, rigorosamente in terra, è affollato da decine di ragazzi. Il tempo di un caffè e incontro ‘Core de Roma‘, gli stringo la mano, ci presentiamo e mi accoglie in segreteria, precisando: “Andiamo sul campo, è il luogo più adatto per parlar di calcio”.

Fonte: Riccardo Cotumaccio

Iniziamo con un ricordo: esordì con la Cremonese e poi, nel ’54, fu acquistato per otto milioni proprio della Roma. Qual è il suo ricordo non solo della città ma anche della società?

Sono venuto a Roma non sapendo di dover venire a Roma. Quando mi han dato la notizia cascai dalle nuvole, perché a tutto pensavo fuorché la Roma. C’era invece l’Inter, che mi chiese in prestito dalla Cremonese e con cui vinsi il Torneo di Sanremo, oggi Torneo di Viareggio. Poi andai a Bologna, convinto di aver trovato la mia nuova destinazione. Viaggiai con un dirigente di poche parole, al quale rivolsi la parola solo una volta scesi dal treno. Gli chiesi: “Perché non andiamo in sede (del Bologna, ndr)?”, lui mi rispose stizzito: “Ma scherziamo? Vengono dalla Capitale e noi andiamo in sede? Ti abbiamo ceduto alla Roma, sta arrivando il segretario della società”. “Madonna, così lontano!” pensai. All’epoca per noi del Nord  la Roma non contava come il Milan, la Juventus, l’Inter o il Grande Torino. Quando è arrivato il dottor Carpi in stazione non sapevo quanto costavo, quanto avrei percepito, ma chiesi solo dove poter firmare. Firmai il contratto senza neanche guardare cosa c’era scritto. “Quando sarà il momento devi partire per Roma, abiterai lì e starai lì con noi”, mi disse. Quando arrivai a Roma mi feci accompagnare da un tassinaro: la sede era in Via delle Quattro Fontane. Andai su in sede e lì un addetto della Roma mi portò in una pensione dove avrei dovuto alloggiare a mie spese – ride – e io avrei dovuto pensare a tutto quanto. Cominciò così la mia avventura, non conoscendo nessuno e con nessuno che conosceva me. I miei compagni mi chiedevano chi fossi, ero il più piccolo. Mi facevano fare la gavetta, come nel servizio miilitare. Ed io mi prestavo, stavo al gioco. Roma mi metteva paura: era la grande città. All’inizio non sapevo dove andare, aspettavo solo di poter raggiungere i compagni al campo il giorno dopo per fare gli allenamenti. Ho conosciuto Roma in questa maniera, ma poi mi sono innamorato di questa società e di questa grande città, la città più bella del mondo.

L’esordio, casualmente, proprio con l’Inter.

In quell’anno fui convocato prima con l’Inter, poi con il Milan sempre a San Siro. In quelle occasioni la Roma vinse entrambe le volte e mi diedero del portafortuna. Il mister Carver si decise quindi a farmi debuttare, con l’Inter nel girone di ritorno, sempre a San Siro. Da lì diventai poi titolare, vestendo prima il numero tre, poi il due ed infine il numero cinque, il numero che mi ha reso quel che sono.

E che lo ha reso ‘Core de Roma’, grazie a quel goal contro la Sampdoria…

Sì, ma ci furono anche altri episodi che spinsero la gente ad amarmi. Anche se mi facevo male rimanevo in campo, anche perché allora non esistevano le sostituzioni. Con la Sampdoria rimanemmo in nove, io mi strappai all’inguine entrando su Brighenti e perdevamo 2-1. Pareggiò Manfredini e poi segnai il 3-2, un goal che l’Olimpico ricorda ancora.

Fu proprio Manfredini, nella finale con il Birmingham City, a regalarvi la Coppa delle Fiere.

E non fu semplice arrivare in finale. Giocai la semifinale avendo disputato, il giorno prima, una partita con la Nazionale in Irlanda. Mercoledì, giorno del match, andai a trovare gli altri in ritiro. Dissi a mia moglie: “Vado a salutare i miei compagni”, all’epoca abitavo all’EUR. Arrivato in ritiro i miei compagni si complimentarono per la prestazione con l’Italia e il mister Foni mi disse: “Senti, se ti chiedo di giocare che fai?” – “Io gioco”, risposi. Il mister chiamò i compagni e gli chiese: “Che dite, facciamo giocare Giacomo?”. In risposta ci fu un lungo applauso. Fu poi una fortuna. Telefonai a mia moglie dicendole: “Vai allo stadio da sola, io gioco con la squadra”. Così la partita finì 3-3, ed io – a cinque minuti dalla fine – salvai il risultato bloccando l’attaccante avversario sulla linea di porta. Giocammo la bella quattro giorni dopo e vincemmo in casa per 6-0, qualificandoci per la finale. Poi vincemmo la Coppa.

Che sensazione è stata?

Fu la Coppa di noi giocatori, ci tenevamo tantissimo giocando anche grandi partite con grandi squadre. L’ultima partita vincemmo 2-0 ma meritavano il pareggio. Ma vincere la Coppa fu meraviglioso. Quando il Presidente dell’UEFA mi consegnò la Coppa non la consegnai a nessuno. Ho fatto il giro di campo senza mai darla a nessuno. Mi faceva male il braccio. Una sensazione enorme. Poi ho vinto la prima Coppa Italia vinta da protagonista, e poi la seconda, dove non partecipai alla finale ma mi presi le mie soddisfazioni, prima di finire, purtroppo, la mia grande avventura con la Roma.

C’è stata anche una grande avventura con la Nazionale, nei Mondiali del Cile del ’62.

Un’avventura che è stata bella perché giocavi i campionati del mondo. Ma lì l’abbiam buttata noi. Avevamo una squadra da finale, invece ci siamo fatti eliminare dal Cile in malo modo perché hanno sbagliato tutto. Far giocare sei debuttanti era un suicidio. Noi abbiam pareggiato prima con la Germania, poi perso con il Cile e vinto con la Svizzera per 2-0, ma quel risultato non contava più nulla. Avevamo giocatori come Altafini, Rivera, Buffon in porta, Maldini e Trapattoni, Mora, Maschio. Grandi giocatori, che non giocarono – me incluso – con il Cile. L’arbitro ci ha messo del suo, certo, ma peccato, perché avevamo tutti i numeri per poter andare in finale.

Lei indossò la fascia da Capitano non solo con la Roma, ma anche con gli Azzurri, in quel dell’Heysel a Bruxelles, contro il Belgio.

Allora il Capitano lo faceva chi aveva più partite. In quella partita ne avevo disputate più di tutte. Eravamo in preparazione per il Mondiale, e in assenza di Buffon mi diedero la fascia da Capitano in quanto più anziano della squadra. In quella partita debuttò Rivera, e lo battezzai da Capitano.

Sempre da Capitano, alla Roma, ha vissuto una delle pagine più tristi della storia della Roma: la Colletta del Sistina.

Erano mesi che non ci pagavano. Non c’erano i soldi, né i premi. Ma non fu colpa del presidente Marini Dettina, troppo buono per fare il presidente di una società come la Roma. Allora era allenatore Lorenzo, ex Lazio, e lui pensava di andare tutti al Sistina e di fare una riunione con i tifosi più facoltosi, i tesserati. Ci convinse a presenziare, e andammo al Sistina ignari di quello che poteva succedere. Salimmo sul palcoscenico e, dopo il discorso di Lorenzo, uno dei tifosi voleva che scendessimo in platea per ricevere delle elemosine da parte del popolo. Ci rifiutammo, ma quel signore si tolse il cappello e raccolse centomila lire. Quei soldi Lorenzo li diede a noi giocatori, ma noi li devolvemmo alla popolazione del Vajont, all’epoca vittima del noto disastro industriale, non prendendoci una lira. Con la gestione Evangelisti la Roma iniziò a riprendersi. Molti furono ceduti, ma io rimasi con la Roma per altri quattro anni.

Percorso che ebbe fine con Helenio Herrera. Che rapporto c’era con il tecnico?

Quando è arrivato ero felicissimo. Io gli aprii le braccia, il quale mi chiese com’era l’ambiente. Io gli ho aperto il cuore, dicendogli cos’era Roma e quanto fosse particolare l’ambiente. Prima del suo arrivo a Roma, lui volle portarmi all’Inter. Quando giocai contro la Spagna (di cui all’epoca era ct), mi notò, e mentre ero in ritiro con la Nazionale a S. Pellegrino, mi chiese di andare all’Inter, offrendomi il triplo di quanto guadagnavo a Roma. “Queste cose non le faccio. Se la Roma mi cede bene, ma io non vado via da qui”, gli risposi. Al mio posto fu preso Picchi. Quando lo ritrovai alla Roma avevo 34 anni, non ero decrepito. mi fece giocare la Coppa Italia prima del Campionato e le prime otto in Serie A. Ero l’unico, però, a rispondergli o a dirgli qualcosa. Controbattevo certe sue idee. Lui da lì cominciò a non masticare molto Giacomo Losi. A Verona giocai la mia ultima partita con la Roma, persa per 2-0  perché gli altri avanzavano e io rimanevo da solo a difendere. Negli spogliatoi lo invitai a cambiare marcia e non la prese affatto bene. Ero l’unico a poter parlare; tutto ciò che diceva per gli altri era vangelo. In ritiro a Grottaferrata, pochi giorni dopo, sul giornale lessi “Sorpresa! Fuori Giacomo Losi” con il Bologna. Chiesi spiegazioni ad Herrera, il quale, invece di mandarmi in tribuna per scelta tecnica, si inventò un mio infortunio. Lui diede la colpa ai giornali, poi aggiunse: “Lei non si preoccupi. Se vuole può anche andar a casa”. Presi e me ne andai, da quel giorno non avrei più giocato. E la società non ha neanche alzato il telefono per chiedermi cosa fosse successo. A fine stagione mi han chiesto di andare a cercare giocatori in giro per la Roma. Ma io ero un giocatore! Lì ci rimasi molto male con la società perché non me l’aspettavo. Alla fine del campionato l’usciere della Roma mi consegnò una lettera, ben scritta, nella quale mi si ringraziava di tutto e mi si liberava. Ero svincolato. Con la Roma ho finito in questa maniera, e ci rimasi così male che non giocai più al calcio. Mi volevano Atalanta e Bari. Ma non giocai più.

Sul suo ritiro influì la morte di Guglielmo Taccola, suo compagno di squadra?

Non ero presente al momento del malore. Lui non si riprendeva da una tonsillite. Il dottore gli consigliò di non fare sforzi. Era sempre più bravo e la Roma non poteva fare a meno di lui. Lo fecero allenare, ma svenne sulla spiaggia. A Cagliari non giocò, andò in tribuna. A fine partita scese negli spogliatoi affermando di star male e si accasciò sul lettino dei massaggi. La squadra partì, e lui purtroppo rimase su quel lettino.

Inizia la sua carriera da allenatore, girando tutta Italia. Ma il ricordo più bello è forse con il Bari.

Io ho avuto due ricordi belli. A Lecce vinsi il campionato ma poi ce lo annullarono a tavolino. Poi dopo due anni andai a Bari e vinsi non solo il campionato ma anche il premio per miglior allenatore. Non arrivai mai in A perché non avevo appoggi. Anche in questo mestiere serve un appoggio importante. Io con i mercati non volevo avere nulla a che fare. Io andavo col presidente, con la società, con un programma già preparato, con i giocatori da prendere, ma non mi interessava altro. Poi mi sono stancato di andare in giro, ho fatto due esperienze in alt’Italia ma anche li trovai dei contesti molto difficili. 

Ad Alessandria fu esonerato prima di disputare il campionato.

Me ne andai via prima. Non mi è piaciuto il presidente, il signor Sacco. In breve: ero in preparazione, avevo già fatto tre partite di Coppa Italia, arriva il presidente che, dopo essersi complimentato, mi invita a casa sua. Mi impose di cedere cinque giocatori fondamentali a tre giorni dall’inizio del campionato. Mi rifiutai. “Lei non sa con chi parla! Sono il presidente Sacco!” – “Sì, ma di me**a”, gli risposi! Da quel momento pensai ad altro. Mio figlio non stava bene, era in una clinica in Svizzera. Fortunatamente andò tutto bene, ma quella fu un’esperienza bruttissima. A Piacenza invece non pagavano, e anche lì finì male.

386 presenze con la maglia della Roma, solo un uomo è riuscita a superarla: Francesco Totti. Che rapporto ha con il Capitano?

L’ho visto nascere. Lo seguo da quando è arrivato alla Roma. “Questo diventerà un grandissimo giocatore”, pensai una delle prime volte che l’ho visto. Nel momento in cui ha superato il mio record ha voluto che andassi allo stadio con lui, incorniciò la mia maglia e scrisse una dedica: “Sarai sempre er Core de Roma”. Con Francesco c’è ammirazione reciproca. Chi non può non ammirarlo?

Zeman porterà la Roma al salto di qualità?

Me lo auguro. Dovrebbe essere l’uomo giusto. Dobbiamo avere un po’ di pazienza. Qui a Roma amiamo troppo la squadra e attendiamo da troppo i risultati. Ogni volta che si vince una partita siamo i campioni del mondo, quando si perde ci si abbatte tutti. Questa è una squadra che può competere per i primi posti del campionato, ma ha bisogno di crescere. Ma per vincere ci vuole ancora un po’ di tempo e di pazienza.

Sugli americani?

Non li conosco ma ho fiducia. Conosco bene Baldini e Sabatini e sono persone molto preparate. Questa squadra ha bisogno di tornare tra le grandi. È ora che vinciamo qualcosa di importante.

Ci vorrebbe un altro Giacomo Losi.

Lo spirito mio era importante, ma non ho più una società alle spalle (ride). Ma abbiamo due ragazzi straordinari come Francesco Totti e Daniele De Rossi che possono trascinare la squadra verso grandi traguardi. Poi, se non vinciamo con il Maestro son guai…
 
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